Articolo, di Vincenzo Bombardieri e Rosaria Favoino 01/07/2008
Sommario: 1. Il Modello delle Società Miste. Il caso italiano in europa – 2. L’ordinamento italiano dei servizi pubblici locali, in particolare l’affidamento a società miste pubblico-privato. Un’evoluzione legislativa e giurisprudenziale sofferta e contraddittoria – 3. La novella del 2003, introdotta con il D.L. 30 settembre 2003, convertito in legge dalla l. conv. 24 novembre 2003 n. 326 – 4. La società mista nel diritto comunitario: il partenariato pubblico privato (PPP) – 5. L’attuale contesto normativo italiano alla luce del codice dei contratti pubblici e del decreto bersani, D.L. n. 223/2006 – 6. L’orientamento giurspudenziale comunitario: Sentenze Teckal (C- 107/98) – Stadt halle (C – 26/03) – Parking Brixen (C – 458/03) – Carbotermo (340/04) – 7. La giurisprudenza italiana alla luce dell’orientamento comunitario. la svolta giursisprudenziale in materia di affidamento diretto a società miste del Consiglio di Stato in sede consultiva: Parere, Adunanza Sezione II, 18 aprile 2007, n. 456 – 8. Il recentissimo orientamento della giurisprudenza italiana – 9. Conclusioni.
1. Il Modello delle Società Miste. Il caso italiano in europa.
La storia del modello gestionale delle Società miste pubblico privato, l’evoluzione normativa che la fattispecie ha seguito nell’ultimo ventennio nel sistema italiano, i successivi interventi interpretativi proposti dalla Giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea e dalla Giurisprudenza amministrativa, possono costituire un significativo esempio dell’atteggiarsi dei rapporti tra ordinamento comunitario e nazionale, anche per avviare la comprensione del rapporto tra gli organi giurisdizionali comunitari e quelli statali.
Questo studio ha il compito di evidenziare la specificità, ancora recentemente ribadita autorevolmente dal Consiglio di Stato, del “caso italiano” che, come noto, attende un intervento legislativo chiarificatore nella materia.
La legislatura da poco avviata avrà il compito di raccogliere in modo costruttivo gli studi e le esperienze maturate in questi anni, offrendo parole chiare agli interpreti e consentendo ove possibile agli operatori economici di uscire, per una volta, da una costante incertezza.
2. L’ordinamento italiano dei servizi pubblici locali, in particolare l’affidamento a società miste pubblico-privato. Un’evoluzione legislativa e giurisprudenziale sofferta e contraddittoria.
Appare opportuno ricostruire, in questa sede, l’evoluzione normativa italiana che ha interessato l’istituto delle “società miste”.
Nel corso degli anni, infatti, la materia ha subito notevoli modifiche, – ultima, in ordine di tempo, quella apportata dalla novella introdotta dall’art. 14 del D.L. n. 269 del 30 settembre 2003, convertito nella Legge 24 settembre 2003, n. 326, – determinate, in larga misura, dall’esigenza di adeguare la normativa interna sui servizi pubblici locali alle norme del Trattato dell’Unione Europea, anche allo scopo di evitare di incorrere nella procedura di infrazione, preannunciata con la formale messa in mora del 26 giugno 20021.
Orbene, le Società a capitale misto pubblico-privato sono state introdotte, nel nostro ordinamento, con l’art. 22 della Legge 8 giugno 1990, n. 142.
La disposizione, dopo aver chiarito che la titolarità dei servizi pubblici è attribuita in capo agli enti locali, individuava e tipizzava le modalità attraverso le quali l’istituzione avrebbe potuto provvedere alla gestione.
L’art. 22, 1° comma legge 142/90, così recita: “I comuni e le province, nell’ambito delle rispettive competenze, provvedono alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto la produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali ed a promuovere lo sviluppo civile e delle comunità locali.”
Il comma 3, poi, tipizzava le modalità gestionali, individuandole nella gestione in economia, in concessione a terzi, a mezzo di azienda speciale, a mezzo di istituzione e, infine, “a mezzo di società per azioni a prevalente capitale pubblico locale, qualora sia opportuna, in relazione alla natura del servizio da erogare, la partecipazione di più soggetti pubblici o privati”, (lettera f del 3° comma).
Pertanto, secondo l’originaria previsione della Legge n. 142/90, le Società miste abilitate alla gestione di un servizio pubblico locale dovevano essere a prevalente capitale pubblico2 e appositamente costituite dall’ente locale interessato.
In questa prospettiva, la società mista costituiva uno strumento, un modello organizzativo, prescelto dall’Ente locale nel quadro del suo autonomo potere di auto organizzazione del servizio pubblico.
La materia veniva, immediatamente, ampliata dalla previsione dell’art. 12 della Legge 23 dicembre 1992, n. 498 che prevedeva lo strumento delle “società miste prive del vincolo della proprietà pubblica maggioritaria”.
Per tale tipo di società, la legge, prevedeva, espressamente, la necessità dell’esperimento di procedure di evidenza pubblica per la scelta del partner privato di maggioranza.
A partire dal 1997, è stato avviato un percorso di ridisegno dello “statuto” delle società miste che, come si vedrà, con alterne vicende, e sempre sotto la spinta del diritto Comunitario, ha condotto alle odierne disposizioni normative.
L’originario art. 22 della legge n. 142/90, dunque, veniva, inizialmente, solo modificato dall’art. 17, comma 58, della Legge 15 maggio 1997, n. 127 che ampliava le forme societarie del modello “società mista”, affiancando alle Società per azioni anche le Società a responsabilità limitata.
La novella consentiva, inoltre, la gestione del servizio anche a mezzo di società non appositamente costituite dall’ente locale, utilizzando soggetti già esistenti a cui l’ente partecipava mediante l’acquisto di quote di capitale sociale.
Successivamente, il Testo Unico delle Leggi sull’ordinamento degli Enti Locali (D.Lgs. n. 267 del 18 agosto 2000) sostituì la Legge n. 142/90 e ne trasfuse interamente la disciplina nell’art. 113.
Nella materia di cui si discute, l’art. 22, comma 3, la lettera f), della Legge 142/1990 venne arricchito della previsione, tra le forme di gestione dei Servizi Pubblici Locali, anche delle società miste con partecipazione pubblica di minoranza.
E’ opportuno segnalare che, ancora in questa fase, mentre appare chiaro che, alla luce del dato testuale della disposizione, la gestione può essere affidata direttamente alla Società mista3, nulla è detto circa le modalità di scelta del partner privato che affianca l’ente nella compagine sociale, e, dunque, nella gestione (ciò vale però solo per le società a capitale pubblico di maggioranza, giacché, lo si ricorda, per la diversa ipotesi di società mista con capitale pubblico minoritario è già espressamente previsto l’espletamento delle procedure di evidenza pubblica).
In questa ottica va interpretato l’intervento chiarificatore della giurisprudenza la quale, in larga maggioranza, ha affermato la necessità che la scelta del partner privato di minoranza fosse guidata dal principio della trasparenza dell’azione amministrativa e della libertà di mercato, propri del diritto interno e di quello comunitario, e, dunque, dovesse avvenire attraverso l’utilizzo di procedure ad evidenza pubblica.
La scelta del socio privato di minoranza “deve essere compiuta dal comune attraverso una apposita procedura concorsuale perché il socio privato è un socio “imprenditore” chiamato a svolgere mediante il suo apporto parte rilevante di un pubblico servizio e ciò esclude che l’amministrazione possa basarsi, nella scelta del socio, su generici apprezzamenti soggettivi e, comunque, di carattere fiduciario, perché ciò escluderebbe i principi di buona amministrazione e trasparenza dell’azione amministrativa”4
Sin qui, l’intervento del legislatore ha chiaramente disegnato un favor nei confronti delle Società miste, intese come uno dei modelli organizzativi5 attraverso i quali l’ente può decidere di gestire i servizi pubblici locali di cui è titolare.
Tale favore è giustificato dalla maggiore flessibilità dello strumento rispetto alle altre forme di gestione, nonché dalla circostanza che il sistema consente all’ente, attraverso forme di cogestione, di giocare un ruolo centrale nella gestione del Servizio Pubblico Locale, separando, al contempo, la responsabilità dell’ente dalla gestione, che è, chiaramente, resa più snella e dinamica.
Ciò ha determinato, nel concreto svolgersi dell’azione amministrativa e nell’esperienza reale del “diritto vivente”, la nascita di numerose Società miste, cui, in larga misura, sono stati affidati i destini delle politiche di outsourcing dei servizi pubblici locali.
La materia viene completamente rivoluzionata dalla Legge Finanziaria del 2002, Legge n. 448/2001 che ha, integralmente, riscritto la disciplina dei servizi pubblici locali, modificando l’art. 113 del T.U.E.L. ed inserendo il nuovo art. 113 bis.6
Sotto la spinta del diritto comunitario, in particolare dell’esigenza di tutelare il principio della libera concorrenza di cui agli artt. 43 e 49 del Trattato istitutivo della Comunità, come modificato dal Titolo II (art. G.) del Trattato di Maastricht e dal Trattato di Amsterdam, si realizzava una vera riscrittura della materia che invertiva il trend precedente.
La nuova normativa, anzitutto, effettuava una distinzione tra i Servizi Pubblici Locali a rilevanza industriale e quelli privi di tale rilevanza, dettando per essi una diversa disciplina.
Venivano, cioè, considerati a rilevanza industriale i servizi che si inseriscono in un mercato competitivo e concorrenziale e privi di rilevanza industriale i servizi per i quali, per la loro natura o per i vincoli cui è sottoposta la gestione, è irrilevante la tutela del principio della concorrenza.
In particolare, i servizi a rilevanza industriale venivano definiti come “quelli destinati ad operare nel mercato in quanto si avvicinano molto alle imprese private ma hanno un regime particolare di obblighi e diritti; in particolare, l’obbligo di fornitura delle prestazioni a condizioni uguali su tutto il territorio e quello di perequazione delle tariffe”7.
Proprio in ragione della peculiarità di tali servizi, il legislatore stabilì che, laddove esisteva concorrenza, l’Ente locale non era più soggetto titolare della gestione del servizio. Pertanto, veniva assolutamente esclusa la possibilità di affidare, in via diretta, la gestione dei Servizi Pubblici Locali a rilevanza industriale (cfr. art. 113, V comma D.Lgs. n. 267 del 18 agosto 2000, come modificato dall’art. 35 della Legge n. 448/2001) a Società miste (qualunque fosse l’entità della partecipazione dell’ente), e veniva introdotto il principio secondo il quale tali servizi venivano affidati esclusivamente a società di capitali, individuate, ovviamente, attraverso procedure ad evidenza pubblica.
Tale disciplina ha comportato un sostanziale ridimensionamento, se non la definitiva scomparsa, dello strumento delle Società miste come modello per la gestione dei Servizi pubblici locali.
L’ente locale doveva, dunque, ritirarsi dal mercato ed assumere il ruolo di soggetto regolatore della concorrenza tra soggetti privati, nonché di controllo a tutela dell’interesse pubblico coinvolto nello svolgimento dei servizi pubblici.
Appare, dunque, evidente come nell’architettura normativa introdotta dalla finanziaria del 2002, l’ente locale non abbia più alcuna convenienza ad avviare procedimenti per la costituzione di società miste.
La costituzione di un tale soggetto, anche effettuando la scelta del partner con procedure concorrenziali, non sollevava, comunque, l’ente dall’obbligo di svolgere una procedura ad evidenza pubblica nella fase del conferimento della gestione. A tale procedura, al più, avrebbe potuto concorrere anche la società mista partecipata dall’ente, ma senza alcuna garanzia di successo.
E’ chiaro, dunque, come il sistema abbia creato una situazione quantomeno contraddittoria e, sostanzialmente, contraria ai principi di economia e di ragionevolezza dell’azione amministrativa.
Si pensi, per un solo momento, all’ipotesi in cui un ente avesse costituito una società mista con scelta concorrenziale del partner e proceda all’affidamento con gara del servizio.
Si sarebbe ingenerata un’inutile duplicazione di procedure ad evidenza pubblica. Duplicazione che non avrebbe trovato giustificazione nemmeno nella imprescindibile necessità di garantire il principio di concorrenza, poiché tale assioma sarebbe stato, comunque, tutelato ove l’evidenza pubblica fosse stata espletata, in alternativa, o nella fase di scelta del partner o in quella, successiva, dell’affidamento o viceversa.
Tale principio risulta ormai recepito e applicato dalla giurisprudenza nazionale che si è uniformata alle diverse indicazioni, tra cui questa concernente l’inutilità della doppia gara, fornite dal Consiglio di Stato in sede consultiva, nel Parere n. 456/2007 che ha dato nuovo vigore e vitalità alla figura “società mista” intesa quale modello gestionale alternativo e che si avrà modo di commentare nel prosieguo della trattazione.
3. La novella del 2003, introdotta con il D.L. 30 settembre 2003, convertito in legge dalla l. conv. 24 novembre 2003 n. 326.
Con l’art. 14 del D.L. n. 269 del 30 settembre 2003, convertito in legge dalla L. Conv. n. 326 del 2003, con le successive modifiche apportate dalla Legge 350 del 2003 (Legge Finanziaria 2004), il legislatore italiano interveniva nuovamente sulla disciplina dei servizi pubblici locali, tornando, sostanzialmente sui suoi passi e, raccogliendo le molte osservazioni critiche sollevate in ordine alla precedente disciplina, di fatto procedendo ad una ennesima “riespansione”degli spazi riservati alle società miste.
Tali alterne vicende subivano l’influsso interpretativo della legislazione e dei principi che, più volte, la Commissione Europea ha suggerito al Governo italiano.
Si vedano le diverse lettere e comunicazioni della Commissione UE, indirizzate al Governo italiano, in specie quella del 2000, nelle quali, in riferimento alla giurisprudenza comunitaria, l’organo comunitario invitava il legislatore nazionale a predisporre una disciplina conforme agli indirizzi giurisprudenziali del Supremo Giudice Comunitario.
Con l’art. 14 del D.L. n. 269 del 30 settembre 2003, convertito in legge dalla L. Conv. n. 326 del 2003, con le successive modifiche apportate dalla Legge 350 del 2003 (Legge Finanziaria 2004), si riconsentiva la modalità di erogazione del servizio tramite società mista, reintroducendo lo strumento della “società mista” e prevedendo l’affidamento diretto del servizio a fronte della selezione mediante procedura ad evidenza pubblica del socio privato.
La disposizione esordiva, infatti, con una affermazione di principio, con la quale si definiva la collocazione della nuova disciplina nella gerarchia delle fonti.
In nuovo l’art. 113, 1 comma, stabilì che “le modalità di gestione ed affidamento dei servizi pubblici locali concernono la tutela della concorrenza e sono inderogabili”.
Dunque, le disposizioni dell’art. 113 T.U.E.L., essendo dirette a tutelare una delle libertà fondamentali previste nel Trattato dell’Unione, vale a dire la libera concorrenza, sono, non solo, integrative delle discipline di settore, ma, altresì, inderogabili da tali discipline.
La nuova disciplina sostituiva alla distinzione tra Servizi pubblici locali a rilevanza industriale e privi di rilevanza industriale quella tra servizi a rilevanza economica e privi di rilevanza economica.
Per i primi (serivizi a rilevanza economica) erano previste le modalità di gestione indicate nel nuovo art. 113, comma 5, per i secondi ( privi di rilevanza economica), a seguito dell’abrogazione dell’art. 113 bis, comma 4, che prevedeva l’affidamento “a terzi in base a procedure ad evidenza pubblica”, era prevista esclusivamente una gestione diretta solo mediante “società a capitale interamente pubblico” che dovevano avere le caratteristiche di una gestione cosiddetta “in house”.
Alla luce delle prime interpretazioni della disciplina, può ritenersi che i servizi pubblici locali a rilevanza economica sono tutti quei servizi che riguardano la collettività e che vengono offerti in un determinato mercato dietro il pagamento, da parte degli utenti, di un prezzo (o canone) che, di regola, serve a coprire i costi, oltre a remunerare il capitale investito.
Privi di rilevanza economica sono, di conseguenza, quei servizi che hanno principalmente carattere solidaristico e che non danno luogo alla realizzazione di profitti o che, comunque, non vengono svolti a scopo di lucro. 8
In ordine alle modalità di gestione dei Servizi pubblici locali a rilevanza economica, il nuovo comma 5 dell’art. 113 T.U.E.L. modifica, nuovamente e diremmo integralmente, la precedente disciplina, prevedendo tre possibili modalità di gestione:
con conferimento a società di capitali individuate attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica;
con conferimento “a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedura ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche”;
con conferimento a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano (cd. Affidamento in house)9.
Si può, perciò, ritenere che, accanto all’affidamento mediante gara, che la riforma attuata dall’art. 35 della Legge n. 448/2001 aveva configurato come unico strumento per la gestione esternalizzata dei servizi pubblici (“L’erogazione del servizio, da svolgere in regime di concorrenza, avviene secondo le discipline di settore, con conferimento della titolarità del servizio a società di capitali individuate attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica”), l’art. 14 del D.L. n. 269/2003 prevedeva altri due modelli dei quali l’uno rispondeva allo schema dell’affidamento in house di estrazione comunitaria, mentre l’altro reintroduceva lo strumento della società mista, prevedendo l’affidamento diretto del servizio a fronte della selezione mediante procedura ad evidenza pubblica del socio privato.
Secondo la normativa sopra citata, la possibilità di derogare all’obbligo dell’evidenza pubblica doveva ritenersi consentita nelle sole ipotesi di affidamento diretto a società a capitale misto nelle quali il socio privato fosse stato individuato a mezzo di procedure ad evidenza pubblica e di affidamento in house a società a dominanza pubblica.
Ritornava ad avere, dunque, la Società a capitale misto pubblico-privato un ruolo centrale nell’architettura normativa in materia di Servizi Pubblici locali.
Merita, in questo contesto, operare una breve quanto necessaria sintesi delle fasi di costituzione della società mista, la cui attività viene svolta, come è noto, in forma di società di capitali, pur in un ambito in cui le peculiarità della disciplina finiscono con il riverberarsi ed investire direttamente “l’attività piuttosto che investire direttamente la struttura societaria”10.
In tal senso, l’adozione del modello della società mista per la convivenza di interessi pubblici e privati trova la sua esplicazione in un sistema ove il socio privato viene scelto tramite una selezione comparativa e concorrenziale all’interno del mercato di operatività del medesimo oggetto sociale dell’ente.
Sin da quando, nel nostro ordinamento, è stato normativamente accolto tale istituto, il legislatore nazionale ha da subito scelto di disciplinare la costituzione della società articolando il procedimento nel seguente modo:
Deliberazione di costituzione di società (quote, attività e finalità del futuro soggetto di diritto);
Redazione del bando di gara (requisiti, prestazioni accessorie, durata, diritti, oggetto dell’attività) per la selezione del socio privato cui attribuire una quota del capitale sociale stabilita nella misura che l’ente aggiudicatore ritiene più opportuna;
L’atto o il provvedimento dell’ente aggiudicatore finalizzato all’affidamento diretto dell’attività alla così formata società
La procedura di costituzione della società, con particolare riferimento agli strumenti di selezione del socio e alla strutturazione del procedimento, garantisce, secondo il legislatore italiano, quelle esigenze in materia di concorrenza e di trasparenza, nonché di parità di trattamento imposte dal diritto comunitario, individuando nella schema della società mista un modello di gestione del servizio pubblico alternativo alla concessione e all’appalto.
Un’alternativa che trova piena espressione nella profonda compenetrazione tra agire pubblico e logiche imprenditoriali di natura privatistica trasfuse nell’attività di produzione o erogazione, laddove, nell’appalto, l’affidatario privato è un esecutore della soddisfazione dei bisogni dell’amministrazione, mentre nella concessione è, al più, beneficiario di un diritto di sfruttamento dei proventi del servizio commissionato dalla P.A. per i suoi utenti.
In questo schema, la società mista rappresenta un modello integrativo delle risorse e delle necessità, tipicamente pubbliche, di garanzia di determinati servizi con le risorse, le dotazioni, le capacità e l’organizzazione, tipicamente imprenditoriali, superando le rigide chiusure del sistema delle gestioni in appalto o in concessione, affidandosi agli strumenti che il diritto comune offre in materia societaria e contrattuale, seppure nelle forme prescritte ed in ossequio alla disciplina comunitaria.
Appare evidente come il legislatore abbia considerato sufficiente, nella prospettiva delle tutela del principio di libera concorrenza, l’espletamento della procedura concorrenziale nella fase della selezione del partner della società mista, ritenendo, in questo caso, compatibile l’affidamento diretto con la normativa comunitaria e i principi che in quest’ultima trovano espressione.
A condizione, dunque, che il socio partner privato venga scelto mediante procedure ad evidenza pubblica che diano garanzia del rispetto dei principi comunitari ed interni in materia di concorrenza, la società mista può ricevere dall’ente (questa volta indipendentemente dalla quantità della partecipazione azionaria dello stesso, nel senso che non viene richiesta espressamente la partecipazione maggioritaria dell’ente) l’affidamento diretto della gestione del servizio e l’ente, a sua volta, può legittimamente conferire direttamente a tale società la gestione del servizio pubblico locale.
4. La società mista nel diritto comunitario: il partenariato pubblico privato (PPP)
Anche a livello comunitario, il coinvolgimento nella gestione dei servizi di soggetti privati è visto con favore, potendo essi apportare alla pubblica amministrazione know how una gestione di tipo manageriale.
Sia la Commissione che il Parlamento Europeo concordano nel ritenere che le forme di Partenariato Pubblico Privato (PPP) non costituiscono l’anticamera di un processo di privatizzazione delle funzioni pubbliche, dal momento che le sinergie tra pubblica amministrazione e soggetti privati possono generare effetti positivi per la collettività, atteggiandosi a strumento alternativo alla stessa privatizzazione.
Per tale motivo l’assemblea di Strasburgo ha qualificato, senza mezzi termini, il PPP, in tutte le sue manifestazioni, come un possibile strumento di organizzazione e gestione delle funzioni pubbliche, riconoscendo alle amministrazioni la più ampia facoltà di stabilire se avvalersi o meno di soggetti privati terzi oppure di imprese interamente controllate oppure, in ultimo, di esercitare direttamente i propri compiti istituzionali.
Il fenomeno della “società mista” rientra nel concetto di partenariato pubblico-privato (PPP) la cui codificazione risale al citato “Libro Verde” della Commissione Ce relativo al PPP e al diritto comunitario degli appalti e delle concessioni.
Nel Libro Verde presentato il 30 aprile 2004, la Commissione ha affermato che il termine PPP si riferisce in generale a “forme di cooperazione tra le autorità pubbliche e il mondo delle imprese che mirano a garantire il finanziamento, la costruzione, il rinnovamento, la gestione o la manutenzione di un’infrastruttura o la fornitura di un servizio”.
La Commissione ha ritenuto di poter individuare due tipi di partenariato pubblico-privato, e, precisamente, uno di tipo “puramente contrattuale” e l’altro “istituzionalizzato”.
Il PPP di tipo “puramente contrattuale” è quello “basato esclusivamente su legami contrattuali tra i vari soggetti. Esso definisce vari tipi di operazioni, nei quali uno o più compiti più o meno ampi, tra cui la progettazione, il finanziamento, la realizzazione, il rinnovamento o lo sfruttamento di un lavoro o di un servizio, vengono affidati al partner privato”11.
I modelli di partenariato di tipo puramente contrattuale più conosciuti sono l’appalto e la concessione.
I partenariati pubblico privato di “tipo istituzionalizzato” sono, secondo la Commissione, quelli che implicano una cooperazione tra il settore pubblico e il settore privato in seno ad un’entità distinta. Sono forme di collaborazione, cioè, che implicano la creazione di un’entità distinta dal partner pubblico e dal partner privato, la quale ha la “mission” di assicurare la fornitura di un’opera o di un servizio.
Il modello di partenariato di tipo istituzionalizzato più conosciuto è quello della “società mista”.
La Commissione Europea tende ad assimilare il partenariato pubblico privato di “tipo istituzionalizzato” a quello di “tipo puramente contrattuale” e, perciò, a considerare applicabile anche al primo di tipo di partenariato il “diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni”.
Ciò ha delle ovvie ricadute sulle modalità di scelta del partner privato, essendo chiaro che, anche in tal caso, in assenza di norme specifiche, devono applicarsi, come avviene per l’affidamento a terzi di servizi mediante concessioni, le norme del Trattato sulla libera prestazione dei servizi e sulla libertà di stabilimento, nonché i principi di trasparenza, di non discriminazione, di parità di trattamento, pubblicità, proporzionalità e reciproco riconoscimento.
La necessità di ricorrere a procedure selettive per la scelta del partner privato con il quale costituire la società mista costituisce ormai una regola acquisita nell’ordinamento interno.
E, comunque, l’unico limite posto dal diritto comunitario, consiste nel rispetto dei principi sopra richiamati: principi che trovano tutti cittadinanza all’interno del Trattato dell’UE. Anche, perché lo stesso libro verde precisa che la partnership pubblico privato va senz’altro favorita, ma non può rappresentare un modo per eludere la disciplina della concorrenza.
A riguardo, il D.Lgs. 163/2006, che di seguito si analizzerà con maggiore dettaglio, all’art. 1, comma 2, prescrive che “Nei casi in cui le norme vigenti consentono la costituzione di società miste per la realizzazione e/o la gestione di un’opera pubblica o di un servizio, la scelta del socio privato avviene con procedure di evidenza pubblica”.
Anche dal dettato comunitario, appare chiaro che sia ammissibile l’affidamento diretto di un servizio a società partecipate dall’ente pubblico, allorquando le esigenze di tutela della concorrenza siano state rispettate a monte, col previo esperimento della pubblica gara indetta per l’individuazione del partner privato, e, pertanto, sia legittimo il conseguente conferimento diretto della gestione del servizio alla società mista.
5. L’attuale contesto normativo italiano alla luce del codice dei contratti pubblici e del decreto bersani, D.L. n. 223/2006.
Come si è già avuto modo evidenziare, il modello delle società miste è da tempo presente nel nostro ordinamento ed è, oggi, previsto in via generale, dall’art. 113, comma 5, lett. b) del D.Lgs. 276/2000 (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, t.u.e.l.), introdotto dall’art. 14 del D.L. 30 settembre 2003, n. 296 come modificato dalla relativa legge di conversione.
Tale norma dispone che l’erogazione dei servizi per la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali “avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell’Unione Europea, con conferimento della titolarità del servizio…” tra l’altro “a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche”.
Lo stesso art. 113, comma 5, lett. c) prevede, in alternativa al ricorso alla società mista, il modello della società in house a capitale interamente pubblico, richiedendo solo per tale caso i requisiti del “controllo analogo” e della “destinazione prevalente dell’attività” in favore dell’ente pubblico di appartenenza, identificati dalla sentenza Teckal, di seguito commentata.
Sempre in via generale, il Codice dei contratti pubblici, D.Lgs. 163/2206 contiene, all’art. 1, comma 2, una previsione di carattere generale sulle società miste, secondo la quale: “Nei casi in cui le norme vigenti consentono la costituzione di società miste per la realizzazione e/o gestione di un’opera pubblica o di un servizio, la scelta del socio privato avviene con procedure di evidenza pubblica”.
Tale norma codifica il principio secondo il quale la scelta del socio deve comunque avvenire con “procedure ad evidenza pubblica”.
La figura delle società miste compare anche nell’art. 32, comma 1, lett. c), del suddetto Codice, il quale dispone: “Salvo quanto dispongono il comma 2 e il comma 3, le norme del presente titolo, nonché quelle della parte I, IV e V, si applicano in relazione ai seguenti contratti, di importo pari o superiore alle soglie di cui all’articolo 28: … c) lavori, servizi, forniture affidati dalle società con capitale pubblico, anche non maggioritario, che non sono organismi di diritto pubblico, che hanno ad oggetto della loro attività la realizzazione di lavori o opere, ovvero la produzione di beni o servizi, non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza, ivi comprese le società di cui agli articoli 113, 113-bis, 115 e 116 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali”; e al comma 3: “Le società di cui al comma 1, lettera c) non sono tenute ad applicare le disposizioni del presente codice limitatamente alla realizzazione dell’opera pubblica o alla gestione del servizio per i quali sono state specificamente costituite, se ricorrono le seguenti condizioni:
1) la scelta del socio privato è avvenuta nel rispetto di procedure di evidenza pubblica;
2) il socio privato ha i requisiti di qualificazione previsti dal presente codice in relazione alla prestazione per cui la società è stata costituita;
3) la società provvede in via diretta alla realizzazione dell’opera o del servizio, in misura superiore al 70% del relativo importo”.
Sempre in relazione al modello generale, si ricorda l’intervento dell’art. 13 del D.L. n. 223/2006, convertito dalla legge n. 248/2006, il quale ha introdotto l’articolata disciplina che, in linea con i più recenti orientamenti giurisprudenziali comunitari, volti a limitare l’in house providing, mira ad evitare il fenomeno della c.d. cross subsidization delle società pubbliche, per cui esse operano al di fuori degli ambiti territoriali di appartenenza, acquisendo commesse da enti pubblici diversi da quelli controllanti od affidanti i contratti in house.
In tale nuovo regime, il D.L. 223/2006 ha equiparato i due diversi modelli delle società in house e del partenariato pubblico privato.
In particolare, si è disposto che le società a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali o locali, (non da quelle statali) per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali:
devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti (viene quindi fissata la regola dell’esclusività in luogo di quelle della prevalenza);
non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto, né con gara, e non possono partecipare ad altre società od enti;
sono ad oggetto sociale esclusivo (l’oggetto sociale esclusivo non sembra debba essere inteso come divieto delle c.d. multiutilities);
Tale disposizione è, peraltro, al vaglio della Corte Costituzionale, davanti alla quale è stata impugnata perché ritenuta discriminatoria delle società regionali e locali, rispetto a quelle statali, nonché limitativa della capacità contrattuale delle società con riferimento a partecipazioni ulteriori.
Dell’esigenza, de iure condendo, di un contesto normativo generale più organico si è fatto, altresì, carico il recente disegno di legge governativo recante “Delega al governo per il riordino dei servizi pubblici locali” (Atto Senato n. 772 della XV legislatura presentato in data 7 luglio 2006), il quale prevede che “l’affidamento delle nuove gestioni e il rinnovo delle gestioni in essere dei servizi pubblici locali di rilevanza economica debba avvenire mediante procedure competitive ad evidenza pubblica” consentendo solo “eccezionalmente” l’affidamento a società totalitarie in presenza dei presupposti comunitari.
Questo l’attuale panorama legislativo in materia di società a capitale misto pubblico privato.
6. L’orientamento giurspudenziale comunitario: Sentenze Teckal (C- 107/98) – Stadt halle (C – 26/03) – Parking Brixen (C – 458/03) – Carbotermo (340/04)
Parallelamente all’evoluzione della legislazione nazionale, la Corte di Giustizia Europea è andata, nel corso degli anni, delineando una casistica giurisprudenziale idonea a contenere le possibili ipotesi di affidamento diretto di un servizio, in deroga alle norme sulla concorrenza e sulla trasparenza di derivazione comunitaria, stabilendo che ciò poteva essere previsto solo per le tassative ipotesi previste dalla sentenza in causa C–107/98 (Sentenza Teckal), cioè solo in caso di affidamento “in house providing”.
Con l’espressione “in house providing” si intende, infatti, un fenomeno di “autoproduzione” per mezzo del quale la Pubblica Amministrazione acquisisce un bene o un servizio attingendoli all’interno della propria compagine organizzativa senza ricorrere a “terzi” tramite gara e, dunque, al mercato 12.
Il modello si contrappone a quello dell’outsourcing o contracting out (c.d. esternalizzazione) in cui la sfera pubblica si rivolge al privato, demandandogli il compito di produrre e/o fornire i beni e i servizi necessari allo svolgimento della funzione amministrativa.
Secondo l’insegnamento della Corte di Giustizia, i tratti qualificanti dell’ “in house providing”- della “delega interorganica” secondo l’ordinamento interno- si rinvengono nell’assenza di un vero e proprio rapporto contrattuale tra un’amministrazione aggiudicatrice (come ad esempio un ente locale) e la persona giuridica destinataria dell’affidamento, in quanto l’ente conferente esercita sul prestatore del servizio un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi e tale persona (giuridica) realizza la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti che la controllano13.
Due sono, pertanto, le condizioni che giustificano la sottrazione di un appalto pubblico all’ambito di operatività delle norme comunitarie:
la circostanza che l’affidamento abbia luogo in favore di soggetti giuridicamente distinti dall’amministrazione conferente, ma ciononostante elementi del sistema amministrativo che a tale amministrazione fa capo, privi, cioè, rispetto ad esso, della qualità di “terzi” (elemento formale)14;
il fatto che il destinatario dell’appalto svolga la parte più importante della propria attività in favore di tale amministrazione (elemento del destinatario dell’attività espletata)15.
Nell’occuparsi della prima delle richiamate condizioni, la Corte è andata progressivamente visualizzando gli aspetti da prendere in considerazione allo scopo di qualificare il rapporto intercorrente tra i due soggetti, individuando cumulativamente gli indici di riconoscibilità “dell’assenza di autonomia decisionale”:
nella dipendenza finanziaria, da ravvisarsi nella relazione proprietaria, sotto la forma della partecipazione pubblica, diretta o indiretta, nella società16;
nella dipendenza amministrativa, in termini sia gestionali che organizzativi.17
Alla stregua di tali parametri, si è andato, dunque, chiarendo che il rapporto di “terzietà”, rilevante ai fini dell’applicazione delle regole comunitarie, è da escludere in presenza di un “assoluto potere di direzione, coordinamento e supervisione dell’attività del soggetto partecipato” da parte dell’amministrazione controllante e che tale presupposto può ritenersi soddisfatto quando, tra i due soggetti, sussiste “un rapporto equivalente, ai fini degli effetti pratici, ad una relazione di subordinazione gerarchica, situazione che si verifica quando sussiste un controllo gestionale e finanziario stringente dell’ente pubblico sull’ente societario (c.d. “controllo analogo”)”.
La Corte di Giustizia Europea, dunque, con la storica sentenza Teckal, dopo aver affermato l’obbligatorietà della procedura ad evidenza pubblica per la scelta del contraente di una fornitura all’ente pubblico, decise che: ”Può avvenire diversamente solo nel caso in cui, nel contempo, l’ente locale eserciti su tale soggetto un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e quest’ultimo realizzi la parte più importante della propria attività, con l’ente o con gli enti locali detentori”18.
Nella decisione sopra menzionata, non era stato chiarito, però, il concetto di “controllo analogo”. Era stata ammessa, infatti, la possibilità che l’affidatario del servizio fosse, non un ufficio, ma un soggetto giuridico diverso dall’ente e che fosse consentito a questo soggetto di svolgere una parte, anche se minoritaria, della propria attività a favore di soggetti diversi dall’ente pubblico. Ipotesi questa inconciliabile con la figura dell’ufficio.
A ciò deve aggiungersi il fatto che il riferimento a “gli enti locali detentori”, con cui si chiude l’ultimo periodo, implicava il coinvolgimento di un soggetto il cui capitale era posseduto dall’ente, o, tratto ancora più significativo, da più enti pubblici diversi.
La Corte di Giustizia ha riaffrontato, dunque, il problema del “controllo analogo” (Sentenza 11 gennaio 2005, in causa C-26/03) giungendo ad interpretare autenticamente il concetto elaborato nella sentenza Teckal.
A tal proposito, il paragrafo 49 della Sentenza Stadt Halle così recita: “In conformità della giurisprudenza della Corte non è escluso che possano esistere altre circostanze nelle quali l’appello alla concorrenza non è obbligatorio ancorché la controparte contrattuale sia un’entità giuridicamente distinta dall’amministrazione aggiudicatrice. Ciò si verifica nel caso in cui l’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, eserciti sull’entità distinta in questione un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi e tale entità realizzi la parte più importante della propria attività con l’autorità o le autorità pubbliche che la controllano (v., in tal senso, sentenza Teckal, cit., punto 50). Occorre ricordare che, nel caso sopra menzionato, l’entità distinta era interamente detenuta da autorità pubbliche. Per contro, la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi”19.
In definitiva, la sentenza richiamata chiarisce che un’autorità pubblica che sia un’amministrazione aggiudicatrice ha la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico mediante propri strumenti amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza essere obbligata a ricorrere ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi. In tal caso, non si può parlare di contratto a titolo oneroso concluso con un’entità giuridicamente distinta dall’amministrazione aggiudicatrice e, conseguentemente, non sussistono i presupposti per applicare le norme comunitarie in materia di appalti pubblici.
La Corte prosegue affermando che la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi.
E ciò per la fondamentale ragione che qualunque investimento privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati, e persegue obiettivi che non sono di interesse pubblico, laddove il rapporto tra un’autorità pubblica e i suoi servizi sottostà esclusivamente ad esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico.
In tal modo, secondo una lettura restrittiva, il “controllo analogo” viene a legarsi all’elemento teleologico degli obiettivi (di interesse pubblico) che devono essere perseguiti tanto dal soggetto conferente, quanto dall’affidatario, rendendo manifesta l’incompatibilità di tale concetto con qualunque forma di negoziazione sugli obiettivi strategici dell’organismo controparte, come pure sulle singole decisioni relative alla conduzione dell’impresa.
Concludendo, “nell’ipotesi in cui un’amministrazione aggiudicatrice intenda concludere un contratto a titolo oneroso relativo a servizi rientranti nell’ambito di applicazione, ratione materiae, della direttiva 92/50, come modificata dalla direttiva 97/52, con una società da essa giuridicamente distinta, nella quale la detta amministrazione detiene una partecipazione insieme con una o più imprese private, le procedure di affidamento degli appalti pubblici previste dalla citata direttiva debbono sempre essere applicate” (paragrafo 50).
Con la decisione 13 ottobre 2005, in causa C-458/03 (Sentenza Parking Brixen GmbH), la Corte comunitaria ha condotto un ulteriore approfondimento sul tema, pervenendo ad una più puntuale individuazione dei caratteri del controllo che l’ente deve poter esercitare sulla società affidataria del servizio pubblico (parag. 67-69).
Non occorre applicare le norme comunitarie in materia di appalti pubblici o di concessioni di pubblici servizi – sostiene la Corte – nel caso in cui un’autorità pubblica svolga i compiti di interesse pubblico ad essa incombenti mediante propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo, senza far ricorso ad entità esterne20.
Di conseguenza, nel settore delle concessioni di pubblici servizi, l’applicazione delle regole enunciate agli artt. 12 CE, 43 CE e 49 CE, nonché dei principi generali di cui esse costituiscono la specifica espressione, è esclusa se, allo stesso tempo, il controllo esercitato sull’ente concessionario dall’autorità pubblica concedente è “analogo” a quello che essa esercita sui propri servizi e se il detto ente realizza la maggior parte della sua attività con l’autorità detentrice.
”Allorché un ente concessionario fruisce di un margine di autonomia caratterizzato dal fatto che l’oggetto sociale è stato esteso a nuovi importanti settori, il cui capitale deve essere a breve termine obbligatoriamente aperto ad altri capitali, il cui ambito territoriale di attività è stato ampliato a tutto il paese e all’estero, e il cui Consiglio di amministrazione possiede amplissimi poteri di gestione che può esercitare autonomamente, è escluso che l’autorità pubblica concedente eserciti sull’ente concessionario un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi”21.
Tale decisione ha, dunque, per un verso, stabilito che, il possesso dell’intero capitale sociale da parte dell’ente pubblico, pur astrattamente idoneo a garantire il controllo analogo a quello esercitato sui servizi interni, perde tale qualità se lo statuto della società consente che una quota di esso, anche minoritaria, possa essere alienata a terzi e, per l’altro, ha stabilito che, se il consiglio d’amministrazione “dispone della facoltà di adottare tutti gli atti ritenuti necessari per il conseguimento dell’oggetto sociale”, i poteri attribuiti alla maggioranza dei soci dal diritto societario non sono sufficienti a consentire all’ente di esercitare un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.
Ne discende che gli artt. 43 CE e 49 CE, nonché i principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza, devono essere interpretati nel senso che ostano a che un’autorità pubblica attribuisca, senza svolgimento di pubblica gara, una concessione di pubblici servizi ad un ente concessionario interamente partecipato dall’autorità pubblica medesima, sul quale, tuttavia, non eserciti, di fatto, un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.
Infine, la sentenza Carbotermo22 del 11 maggio 2006 ha affermato che la partecipazione pubblica totalitaria è necessaria, ma non sufficiente.
Difatti, per giustificare la deroga alle regole europee di evidenza pubblica, occorrono maggiori strumenti di controllo da parte dell’ente rispetto a quelli previsti dal diritto civile.
La giurisprudenza comunitaria e nazionale ha individuato tali strumenti di controllo nelle seguenti circostanze:
il consiglio di amministrazione della società in house non deve avere rilevanti poteri gestionali e l’ente pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale;
l’impresa non deve aver “acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo” da parte dell’ente pubblico. Tale vocazione risulterebbe, tra l’altro, dall’ampliamento dell’oggetto sociale, dall’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali, dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutta l’Italia e all’estero;23
le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante24;
il controllo analogo si ritiene escluso dalla semplice previsione nello statuto della cedibilità delle quote a privati25.
La giurisprudenza ha, altresì, chiarito che, in astratto, è configurabile un “controllo analogo” anche nel caso in cui il pacchetto azionario non sia detenuto direttamente dall’ente pubblico, ma indirettamente mediante una società per azioni capogruppo (c.d. holding) posseduta al 100% dall’ente medesimo. Tuttavia, una tale forma di partecipazione “può, a seconda delle circostanze del caso specifico, indebolire il controllo eventualmente esercitato dall’amministrazione aggiudicatrice su una società per azioni in forza della mera partecipazione al suo capitale”26. In tale ottica, la partecipazione pubblica indiretta, anche se totalitaria, è in astratto compatibile, ma affievolisce comunque il controllo.
Il richiamo alle sentenze comunitarie riportate va letto non solo nell’ottica della comprensione delle differenze esistenti tra il fenomeno tipico dell’”in house providing” e quello del partenariato pubblico-privato costituito dalle “società miste”, ma, altresì, al fine di evidenziare che le suddette sentenze definiscono concetti che, per un verso non si applicano alle “società miste” (v. “controllo analogo”) e, per altro verso, non escludano la compatibilità del fenomeno “società mista” con i principi di libera concorrenza, trasparenza, parità di trattamento, non discriminazione, considerato che in nessuna delle sentenze analizzate il socio privato era stato scelto con procedura a d evidenza pubblica.
7. La giurisprudenza italiana alla luce dell’orientamento comunitario. la svolta giursisprudenziale in materia di affidamento diretto a società miste del Consiglio di Stato in sede consultiva: Parere, Adunanza Sezione II, 18 aprile 2007, n. 456.
Alla luce dell’orientamento comunitario che incalzava di pronuncia in pronuncia, la giurisprudenza italiana, mentre in materia di “in house providing” si è uniformata in toto ai dettami della Corte di Giustizia, in materia di “società miste”, stante l’assenza di specifiche decisioni, ha reagito diversamente, optando per un’interpretazione, a volte restrittiva, a volte estensiva, del dettato comunitario in ordine ai principi che presiedono alla stipulazione dei contratti pubblici.
In particolare, in ordine alla possibilità di affidamento diretto ai sensi dell’art. 113, comma 5, lettera b), è possibile riassumere i due orientamenti nel seguente modo:
l’uno restrittivo, secondo il quale il fondamentale principio comunitario della libera concorrenza sarebbe tutelato, nell’affidamento da parte dell’ente pubblico di un servizio, esclusivamente mediante il ricorso a procedure di evidenza pubblica, essendo tassativamente esclusa ogni ipotesi di affidamento diretto, anche a società miste partecipate dall’ente;
l’altro estensivo, secondo il quale, nell’ipotesi disciplinata dal citato art. 113 T.U.E.L., comma 5 lettera b), il rispetto del principio della concorrenza sarebbe assicurato, per le società miste pubblico private, dalla scelta del partner privato mediante procedure ad evidenza pubblica, che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza, secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche.
Per il primo orientamento, si rammenti, per tutte, la pronuncia del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, decisione 27 ottobre 2006, n. 589, che ha ritenuto “doversi pervenire ad una interpretazione restrittiva, se non addirittura disapplicativa dell’art. 113, comma 5, lett. b), nel senso che la costituzione di una società mista, anche con scelta del socio a seguito di gara, non esime dall’effettuazione di una seconda gara per l’affidamento del servizio”..
Per il secondo orientamento si veda TAR Campania Salerno, Sez. I, 19 luglio 2005, n. 1290 e, in senso convergente, T.A.R. Lazio Roma, Sez. II, 9 gennaio 2007, n. 72: “L’affidamento diretto di pubblici servizi a società miste con capitale maggioritario pubblico costituite dagli enti locali non contrasta con il sistema garantistico dell’ordinamento, posto che la scelta del partner privato delle compagini de quibus avviene attraverso procedure ad evidenza pubblica”.
In linea di massima, in un quadro generale incline ad escludere la necessità della seconda gara27, non può dirsi esclusa la possibilità di procedere all’affidamento diretto del servizio a società mista, secondo il disposto dell’art. 113, comma 5 lettera b) del D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, che, ad oggi, lo ricordiamo, non risulta abrogato.
Tra i due riferiti orientamenti, una posizione intermedia, che, ad oggi, è anche quella più rivoluzionaria, stante l’interpretazione in chiave del tutto nuova dell’istituto delle “società miste”, è quella espressa dalla Sezione II del Consiglio di Stato con il Parere n. 456 del 18 aprile 2007 che si incentra sulla ritenuta ampia fungibilità tra lo schema funzionale della società mista e quello dell’appalto.
In altri termini, secondo la sezione consultiva, la gestione del servizio può essere indifferentemente affidata con apposito contratto di appalto o con lo strumento alternativo del contratto di società, costituendo una società a capitale misto.
La Giurisprudenza del Consiglio di Stato, investita, infatti, della questione dal Mistero delle Politiche Agricole e Forestali con riferimento alla legittimità dell’affidamento diretto del servizio da parte dell’AGEA (Agenzia per l’Erogazione in Agricoltura) al socio privato scelto tramite gara al fine di affidare la gestione e lo sviluppo del SIAN (Sistema Informativo Agricolo Nazionale), ha ritenuto di pervenire a conclusioni differenti da quelle alle quali la giurisprudenza italiana era giunta sulla falsariga delle decisioni comunitarie, introducendo un orientamento di favore nei confronti del modello gestionale “società mista”, opportunamente contemperato con i principi comunitari.
La Sezione ha nuovamente analizzato la figura della “società mista” quale forma, già elaborata da autorevole dottrina, di “collaborazione tra pubblica amministrazione e privati imprenditori nella gestione di un pubblico servizio”, ritenendo che essa costituisca “una modalità organizzativa ulteriore per la soddisfazione delle esigenze generali”, volta a rendere più flessibile la risposta istituzionale a determinate esigenze e risultando, almeno in certi casi, di particolare efficacia,28.
L’iter logico seguito nel citato Parere è di immediata comprensione e può essere così semplificato:
alla stregua degli orientamenti comunitari in materia di in house providing, vi è da chiedersi se il modello organizzativo “società mista pubblico-privato” sia riconducibile al modello dell’in house providing e, solo in caso affermativo, si potrà discutere del rinvenimento o meno, in concreto, dei requisiti richiesti dalla giurisprudenza comunitaria;
una volta esclusa la riconducibilità del modello organizzativo “società mista pubblico-privato” al modello “in house providing”, vi è da concludere per l’inutilità della ricerca dei requisiti, sempre più selettivi, richiesti per tale modello organizzativo, a partire dal “controllo analogo”, anche nel modello di partenariato “società mista pubblico-privato”, al fine di giustificarne la compatibilità con la disciplina comunitaria;
la non riconducibilità della figura della “società mista” a quella dell’in house providing non implica, di per sé, l’esclusione automatica della compatibilità comunitaria della diversa figura della società a partecipazione pubblica maggioritaria, il cui socio privato sia scelto con procedura ad evidenza pubblica;
il modello organizzativo “società mista pubblico-privato” risulta compatibile con i principi espressi dalla Corte di Giustizia Europea.
Ripercorrendo, brevemente, per punti, le fasi descritte, occorre evidenziare come, con riferimento ai punti sub a), sub b) e sub c), l’Adunanza si sia interrogata in ordine alla riconducibilità del modello “società mista” a quello dell’”in house providing”.
Ricordiamo, in estrema sintesi, che la Corte di Giustizia Europea a proposito i società in house affermò che non è necessario rispettare le regole della gara in materia di appalti nell’ipotesi in cui concorrano i seguenti elementi:
l’amministrazione aggiudicatrice esercita sul soggetto aggiudicatario un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi;
il soggetto aggiudicatario svolge la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico di appartenenza.
In ragione del “controllo analogo” e “della destinazione prevalente dell’attività”, l’ente in house non può ritenersi “terzo” rispetto all’amministrazione controllante, ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa: non è, pertanto, necessario che l’amministrazione ponga in essere procedure di evidenza pubblica per l’affidamento di appalti di lavori, servizi e forniture.
Il Consiglio di Stato, come già affermato nel Parere n. 3162/2006 e nella decisione n. 1514/2007, condivide, pienamente, le affermazioni della Corte di Giustizia secondo le quali l’istituto dell’”in house providing” si configura come un modello eccezionale, i cui requisiti vanno interpretati restrittivamente, poiché costituiscono una deroga alle regole generali del diritto comunitario.
Secondo i Giudici di Palazzo Spada l’evoluzione giurisprudenziale consente di escludere la riconducibilità del modello organizzativo della “società mista” a quello dell’”in house providing”.
In particolare, nella sentenza del 11 gennaio 2005, causa C-26/03, Stadt Halle e RPL Lochau, la Corte aveva affermato che “la partecipazione anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulle detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi”.
L’opzione interpretativa è confermata, tra le altre, dalla sentenza 6 aprile 2006, causa C-410/04 – ANAV/Comune di Bari, laddove si afferma che “se la società concessionaria è una società aperta, anche solo in parte, al capitale privato, tale circostanza impedisce di considerarla una struttura di gestione “interna” di un servizio pubblico nell’ambito dell’ente pubblico che la detiene”.
In altri termini, la Corte di Giustizia ha ritenuto che qualsiasi investimento di capitale privato in un’impresa obbedisca a considerazioni proprie degli interessi privati, e persegua obiettivi di natura differente rispetto a quelli dell’amministrazione pubblica.
Pertanto, oggi si può parlare di società in house solo se essa agisce come un vero e proprio organo dell’amministrazione “dal punto di vista sostantivo”, non contaminato da alcun interesse privato.
La non riconducibilità alla figura dell’in house providing non implica, ad avviso del Consiglio di Stato, di per sé, l’esclusione automatica della compatibilità comunitaria della diversa figura della società mista a partecipazione pubblica maggioritaria in cui il socio privato sia scelto con una procedura di evidenza pubblica.
Su tale specifica modalità organizzativa, infatti, non risulta che la Corte di Giustizia abbia ancora avuto modo di pronunciarsi espressamente.
Peraltro occorre osservare che, nelle più importanti sentenze in cui la CGE si è occupata di società miste, si è sempre trattato di società il partner privato era stato individuato senza alcuna gara29.
Per la soluzione della quaestio iuris in esame, il Consiglio di Stato ha proceduto ad una “verifica autonoma da condurre alla stregua dei rigorosi principi dettati dalla Corte di Giustizia, ma senza poter contare, allo stato, su un’indicazione specifica in termini”.
Tale verifica è stata condotta “avendo sempre presente l’interesse fondamentale che sottende l’attuale disciplina dell’evidenza pubblica, la tutela della concorrenza, cui si applicano anche i principi della parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza. Interesse che appare prevalente rispetto a quello della tutela dell’amministrazione”.
Difatti, se la scelta del contraente privato nei contratti “passivi” della P.A. è presente da tempo nel nostro sistema nazionale, ben prima dell’avvento della disciplina comunitaria degli appalti pubblici, con il progressivo diffondersi del diritto comunitario, tale meccanismo è stato investito da una ratio nuova che impone nuovi canoni interpretativi.
La finalità di tale disciplina si è trasformata, in adesione ai principi europei, da quella della tutela primaria della pubblica amministrazione a quella di tutela del principio della libera circolazione e della concorrenza.
Di conseguenza, se, per un verso, ciò ha comportato, ormai quasi del tutto, la scomparsa di norme sulla scelta del contraente di sicuro interesse per l’amministrazione pubblica, ma incompatibili con le norma sulla concorrenza, per altro verso, i meccanismi tradizionali di evidenza pubblica, che potevano adeguarsi a questa diversa ratio sono stati, nella sostanza, recepiti dal Codice dei contratti pubblici e, se contenuti in norme speciali (art. 113, comma 5, lett. b), t.u.e.l.) non sono stati espressamente abrogati.
Ciò è avvenuto sul presupposto che tali meccanismi sono stati ritenuti idonei, dal legislatore nazionale, ad un’applicazione orientata in questa nuova logica.
Analizzato l’iter logico seguito dal Consiglio di Stato nella redazione del Parere in questione, esaminiamo, a questo punto, le conclusioni cui è pervenuta la Sezione in ordine alla questione nodale oggetto del presente studio, ossia in merito alla possibilità di affidare direttamente il servizio ad una “società mista”, il cui socio privato sia stato scelto con procedura ad evidenza pubblica e alla compatibilità di tale modello organizzativo, tutt’ora presente nel nostro ordinamento, con il sistema comunitario, alla stregua della recente e rapida evoluzione giurisprudenziale e stante l’assenza di decisioni specifiche sul punto.
Il Consiglio di Stato ritiene che tale compatibilità possa essere rinvenuta, quantomeno in un caso: quello in cui, avendo riguardo alla sostanza dei rapporti giuridico-economici tra soggetto pubblico e privato e nel rispetto di specifiche condizioni, si possa configurare un “affidamento con procedura di evidenza pubblica” dell’attività “operativa” della società mista al partner privato, tramite la stessa gara volta all’individuazione di quest’ultimo.
In questo caso, indicato di regola come quello del “socio di lavoro”, “socio industriale” o “socio operativo”, il Consiglio di Stato ritiene che l’attività “affidata” (senza gara) alla società mista, sia, nella sostanza, da ritenere affidata (con gara) al partner privato scelto con una procedura di evidenza pubblica che abbia ad oggetto, al tempo stesso, anche l’attribuzione dei suoi compiti operativi e quelle della qualità di socio.
La peculiarità rispetto alle ordinarie procedure di affidamento sembra allora rinvenirsi, nel caso di specie, non tanto nell’assenza di una procedura ad evidenza pubblica (che, come si è detto, esiste a monte nella fase di scelta del partner e opera uno specifico riferimento all’attività da svolgere), quanto nel tipo di controllo esercitato dell’amministrazione appaltante sul privato esecutore: non più l’ordinario “controllo esterno” dell’amministrazione, secondo i canoni usuali della vigilanza del committente, ma un più pregnante “controllo interno” del socio pubblico, laddove esso si giustifichi in ragione di particolari esigenze di interesse pubblico.
Alla luce delle suesposte argomentazione, la Sezione ritiene ammissibile il ricorso alla figura “società mista”, nel caso in cui essa costituisca la modalità organizzativa con la quale l’amministrazione controlla l’affidamento disposto, con gara, al “socio operativo” della società.
In particolare, appare possibile – ad avviso della Sezione – l’affidamento diretto ad una società mista che sia costituita appositamente per l’erogazione di uno o più servizi determinati, da rendere, almeno in via prevalente, a favore dell’autorità pubblica che procede alla costituzione, attraverso una gara che miri non solo alla scelta del socio privato, ma anche – tramite la definizione dello specifico servizio da svolgere in partenariato con l’amministrazione e delle modalità di collaborazione con essa – allo stesso affidamento dell’attività da svolgere e che limiti, nel tempo, il rapporto di partenariato, prevedendo allo scadere una nuova gara.
“E’ ammissibile” dunque, “l’affidamento diretto ad una società mista pubblico/privata ai sensi dell’art. 113, c. 5, lett. b), t.u.e.l., a condizione che detta società sia costituita appositamente per l’erogazione di uno o più servizi determinati, da rendere, almeno in via prevalente, a favore dell’autorità pubblica che procede alla costituzione, attraverso una gara che miri non soltanto alla scelta del socio privato, ma anche – tramite la definizione dello specifico servizio da svolgere in parternariato con l’amministrazione e delle modalità di collaborazione con essa – allo stesso affidamento dell’attività da svolgere e che limiti, nel tempo, il rapporto di parternariato, prevedendo allo scadere una nuova gara”.
In altri termini, laddove vi siano giustificate ragioni per non ricorrere ad un affidamento esterno integrale, appare legittimo configurare un modello organizzativo in cui ricorrano due garanzie:
che vi sia una sostanziale equiparazione tra gara per l’affidamento del servizio pubblico e gara per la scelta del socio, in cui quest’ultimo si configuri come un “socio industriale o operativo”, il quale concorre materialmente allo svolgimento del servizio pubblico o di fasi dello stesso;
che si preveda un rinnovo della procedura di selezione alla scadenza del periodo di affidamento, evitando così che il socio divenga “socio stabile” della società mista, con la previsione, sin dagli atti di gara per la selezione del socio privato, delle modalità di uscita del socio stesso, con liquidazione della sua posizione per il caso in cui, all’esito della successiva gara, esso non risulti più aggiudicatario.
Il primo presupposto va, dunque, individuato nella compenetrazione tra le due figure del “socio privato” e del “socio gestore” la cui posizione si risolve nell’unica gara per la scelta del c.d. “socio industriale” o “socio operativo”
Ciò comporta che l’ipotesi in cui la gara per la scelta del socio venga svolta in vista della realizzazione di uno o più servizi che successivamente si affidano senza gara, con menzione delle caratteristiche del servizio già nel bando della gara celebrata per la scelta del socio, assicura, di per sé, che il mercato sia stato messo in grado di conoscere la serie di atti posti, successivamente, in essere con l’affidamento diretto, senza la necessità di ricorrere ad una seconda procedura di gara.
Sul punto il Consiglio di Stato, nel parere in commento, ha avuto modo di pronunciarsi, soffermandosi, a lungo, in ordine all’opportunità dello svolgimento della doppia gara da più parti auspicata e sostenuta 30.
Pur condividendo le ragioni poste a sostegno di tale tesi (il rispetto del principio della concorrenza e della trasparenza, l’assenza del “controllo analogo” da parte dell’amministrazione aggiudicatrice), il Consiglio di Stato ha ritenuto che le stesse non conducono necessariamente alla conclusione dell’esistenza dell’obbligo, in ogni caso, della seconda gara.
Occorre, infatti, evitare – sostiene la Sezione – di interpretare i dicta della Corte di Giustizia in modo da far loro conseguire affermazioni che, al di fuori dei casi di specie esaminati in quella sede, potrebbero portare, paradossalmente ad effetti opposti e, addirittura, contrari, allo spirito dei principi sempre affermati dalla Corte di Giustizia.
Come già ricordato in precedenza, nelle fattispecie che hanno condotto alle decisioni richiamate in materia, la Corte di Giustizia ha escluso che si potesse applicare il modello dell’in house, ma non si è pronunciata espressamente sulle condizioni di applicabilità di altri modelli (come appunto le “società miste”) nei quali fosse, comunque, presente un’applicazione dei principi dell’evidenza pubblica.
In quei casi, infatti, il soggetto privato non era stato scelto con gara e vigeva una totale pretermissione delle procedure di evidenza pubblica.
A titolo di mero esempio, nella causa C-458/03 – Parking Brixen, le gestione del parcheggio, già affidata ad un operatore, era stata revocata per trasferirla direttamente alla società partecipata, con evidente lesione dei principi di tutela della concorrenza; la causa C-26/03 – Stadt Halle si riferiva ad un affidamento diretto disposto nel 2001 a favore di una società mista, costituita nell’anno 1996 senza alcuna connessione con l’esercizio dello specifico servizio. Anche nel caso C-340/04 – Carbotermo la procedura selettiva per l’affidamento dei servizio era stata sospesa e poi revocata dalla stazione appaltante (lo stesso è avvenuto per la causa C-410/04 – ANAV), al solo scopo di affidare direttamente le prestazioni alla società mista da questa controllata.
La giurisprudenza comunitaria sopra richiamata si riferisce, dunque, a violazioni conclamate del diritto degli appalti, dal momento che l’affidamento dei relativi servizi era stato disposto senza alcuna possibilità per gli operatori economici di settore di concorrere per la sua aggiudicazione.
Il Consiglio di Stato ritiene, pertanto, che non si possa far derivare da tale giurisprudenza anche la conseguenza – che è estranea ai casi in quella sede esaminati – secondo la quale sarebbe obbligatoria l’indizione da parte dell’amministrazione, di una gara nella quale lo stesso soggetto pubblico aggiudicatore possa anche partecipare come socio di una società mista concorrente all’aggiudicazione.
D’altra parte, l’inconfigurabilità del modello dell’in house providing per le società miste, con la conseguente obbligatorietà in ogni caso della doppia gara, rischierebbe di condurre a far valere gli indirizzi della Corte di Giustizia europea come una sorta di “incoraggiamento” alla costituzione di società pubbliche al 100%, senza alcuna procedura selettiva e senza ricorrere al mercato.
Non si può immaginare, sostiene la Sezione, che la Corte di Giustizia europea preferisca tale soluzione rispetto ad un modello che faccia, invece, rientrare in gioco il mercato e i privati, tramite regolari procedure di gara e con garanzie precise che possono, comunque, delimitare l’affidamento nell’oggetto e nel tempo.
Risulterebbe, allora, paradossale nella logica comunitaria della tutela della concorrenza, limitare le opzioni di intervento a due soli estremi assoluti, consentendo una soluzione “tutta pubblica” come unica alternativa a quella, del tutto opposta, del ricorso “pieno” al mercato.
Con la conseguente totale rinuncia, – in settori specifici, per i quali rileva la peculiarità di una data materia e, quindi, l’inopportunità di una totale devoluzione ai privati, ma anche l’impossibilità tecnica di lasciar gestire interamente alla parte pubblica, – a un’apertura parziale a forme di collaborazione pubblico-privato, laddove tale apertura si giustifichi razionalmente con l’esigenza di un controllo più stringente sull’operatore, in quanto svolto non nella veste di committente, bensì in quella di socio e sia delimitata da tutte quelle garanzie di definitezza dell’oggetto e della durata dell’affidamento che possono ricondurre, ad avviso della Sezione, il modello all’affidamento esterno.
In altri termini, se è vero che la società mista, in quanto tale, non è sottoposta al “controllo analogo”, è dirimente la circostanza che proprio la componente esterna che esclude l’in house providing è selezionata con procedure di evidenza pubblica.
Ciò avviene, secondo il Consiglio di Stato, coniugando l’interesse alla valorizzazione delle risorse del mercato, che altrimenti verrebbero disattese da una logica di monopolio pubblico, con l’interesse dell’amministrazione pubblica alla scelta di moduli organizzativi che le consentono di esercitare un controllo non solo esterno (come soggetto affidante), ma interno ed organico (come partner societario) sull’operato del soggetto privato selezionato per la gestione.
L’esistenza, dunque, della gara che conferisca, di fatto, al socio privato “l’affidamento sostanziale” del servizio svolto dalla società mista consente di ricondurre l’ipotesi in questione a quel legittimo fenomeno del partenariato pubblico-privato (PPP) già da tempo affrontato dalle istituzioni comunitarie.
Si fa riferimento al citato Libro Verde, pubblicato dalla Commisione Europea il 30 aprile 2004, nella parte in cui afferma che la “cooperazione diretta tra il partner pubblico ed il partner privato nel quadro di un ente dotato di personalità giuridica propria” tra l’altro “permette al partner pubblico di conservare un livello di controllo relativamente elevato nello svolgimento delle operazioni …”.
Tali tipologie di partenariato – prosegue la Commissione Europea – dovrebbero, comunque, essere assoggettate al rispetto delle norme e dei principi in materia, non potendo “la scelta del partner privato destinato a svolgere tali incarichi nel quadro del funzionamento di un’impresa mista … essere dunque basata esclusivamente sulla qualità del suo contributo in capitali o della sua esperienza, ma dovrebbe tener conto delle caratteristiche della sua offerta – che economicamente è la più vantaggiosa – per quanto riguarda le prestazioni specifiche da fornire”31
In tale ipotesi, il Consiglio di Stato sostiene che i principi comunitari, anche alla stregua della giurisprudenza più rigorosa, appaiono del tutto rispettati.
In particolare, grazie all’esistenza di una gara che, con la scelta del socio definisca anche l’affidamento del servizio “operativo”, non sembra doversi temere quanto affermato nella più volte citata sentenza C-26/03, Stadt Halle e RPL Lochau, secondo la quale “l’attribuzione di un appalto pubblico ad una società mista pubblico-ptivato senza far appello alla concorrenza pregiudicherebbe l’obiettivo di una concorrenza libera e non falsata ed il principio della parità di trattamento degli interessati contemplato dalla Direttiva 92/50, in particolare nella misura in cui una procedura siffatta offrirebbe ad un’impresa privata presente nel capitale delle detta società un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti”
Ad avviso della Sezione, la presenza di un interesse privato appare ricondotta “entro limiti corretti (e propri di tutti gli affidamenti in appalto) se la gara definisce con sufficiente precisione anche il ruolo operativo e non solo finanziario del socio provato da scegliere”.
In tal caso dovrebbe, quindi, considerarsi rispettato il precetto conclusivo di quella sentenza che dichiara che “nell’ipotesi in cui un’amministrazione aggiudicatrice intenda concludere un contratto a titolo oneroso relativo a servizi rientranti nell’ambito di applicazione, ratione materiae, della direttiva 92/50, come modificata dalla direttiva 97/52, con una società da essa giuridicamente distinta, nella quale la detta amministrazione detiene una partecipazione insieme con una o più imprese private, le procedure di affidamento degli appalti pubblici previste dalla citata direttiva debbono sempre essere applicate “.
La stretta connessione, in una sola gara, della scelta del socio con l’affidamento dell’appalto ottempera all’obbligo di applicazione della direttiva statuito dalla Corte di Lussemburgo.
Parimenti insussistente – sostiene la Sezione – appare l’altro rischio paventato dalla recente sentenza 18 gennaio 2007, causa C-220/05 –Jean Auroux, a proposito del ricorso al subappalto da parte della società mista. Nel caso del subappalto, ben può verificarsi il pericolo che “l’oggetto di ogni appalto successivo rappresenti solo una quota dell’appalto totale. Ne può derivare che il valore degli appalti susseguenti aggiudicati da una seconda amministrazione aggiudicatrice sia inferiore a quello previsto dall’art. 6, n. 1, lett. a) della direttiva. Così, attraverso l’attuazione di una serie di appalti successivi, l’applicazione della direttiva potrebbe essere elusa”.
Nell’ipotesi profilata del “socio di lavoro” scelto con gara – sostiene la Sezione – sembra avvenire l’opposto: la società mista non “subappalta” alcunché, mentre il servizio “operativo”viene affidato direttamente in appalto, per tutto il suo valore, al socio “industriale” che opera sotto il controllo del socio “pubblico”.
Secondo i Giudici di Palazzo Spada, l’affidamento diretto alla “società mista” il cui socio privato sia scelto con procedure ad evidenza pubblica, deve avere durata limitata, il rapporto di partenariato deve essere limitato nel tempo, e deve essere previsto, alla scadenza dell’affidamento, una nuova gara.
A tal proposito, vi è da dire che se è vero che la ratio sottesa è quella di evitare che il socio privato diventi soggetto stabile del rapporto di partenariato, onde consentire eventualmente l’entrata di altri operatori del settore presenti sul mercato, garantendo, così, il principio fondamentale della libera concorrenza, è altrettanto vero che decisiva appare la previsione della necessità di procedere opportunamente alla liquidazione del socio privato alla scadenza della gestione, qualora lo stesso non dovesse aggiudicarsi, in sede di rinnovo, la gara.
Tale soluzione appare equa, in quanto in grado di contemperare l’interesse del socio privato e quello del soggetto pubblico.
Il primo ha, prima e durante il periodo dell’affidamento diretto, investito capitali in capacità tecniche e finanziarie per l’espletamento di un servizio sempre più efficiente ed adeguato, programmando e investendo, anche nel lungo periodo, al fine di migliorare e rendere più efficienti le prestazioni oggetto del contratto, nonché di adattare le proprie risorse al progresso tecnologico in continua espansione.
Appare, pertanto equo che, nel caso di mancata prosecuzione del partenariato in esito alla nuova gare, esso venga liquidato mediante il rimborso delle quote della società, valutate secondo i criteri di mercato.
Il secondo avrà la possibilità di non essere legato, in via indefinita, al partner prescelto con la prima gara, potendo, così accedere a opportunità più convenienti ed in grado di assicurare più competitive soluzioni gestionali.
Tuttavia non può nascondersi una potenziale difficoltà, che potrebbe derivare dal fatto che, procedendo l’amministrazione alla gara per il rinnovo dell’affidamento del servizio, essa si troverebbe, in caso di mancata aggiudicazione alla società mista, a dover liquidare, al socio uscente, le quote da quest’ultimo possedute.
Ciò comporterebbe un notevole esborso di danaro pubblico da parte dell’ente che, costretto a liquidare la posizione del socio privato non aggiudicatario della nuova gara, difficilmente sarà in possesso delle condizioni economico-finanziarie idonee a sostenere un simile investimento.
A tal proposito, corre l’obbligo di richiamare la ratio dell’istituto della “società mista” che va, certamente, rinvenuta nella difficoltà dell’amministrazione di reperite risorse necessarie ad assicurare la fornitura di un servizio alla collettività.
In un quadro di questo tipo, il ricorso a capitali e ad energie private diventa momento ineludibile nel difficile compito di garantire un’azione amministrativa efficiente ed efficace, fortemente improntata a criteri di economicità.
L’acquisizione del patrimonio cognitivo, composto di conoscenze tecniche e scientifiche, maturato dal privato nelle singole arre strategiche di affari costituisce, infatti, un arricchimento del know-how pubblico, oltre che un alleggerimento degli oneri economico-finanziari che le pubbliche amministrazioni sono tenute a sopportare in sede di erogazione di servizi.
Sicché, se, in sede di rinnovo, il socio privato, scelto inizialmente con procedura ad evidenza pubblica, viene riconfermato quale aggiudicatario del servizio ribadito, nulla quaestio.
Se, al contrario, il suddetto socio dovesse non risultare nuovamente aggiudicatario, appare opportuno esaminare quali alternative si porrebbero all’attenzione dell’ente.
Pare si possa ritenere che o l’ente acquista le quote del socio uscente tenendole per sè, il che presuppone quella disponibilità di capitali che, come già rilevato, difficilmente è in possesso dell’ente, o che lo stesso preveda, in via preventiva, al momento dell’indizione della gara, tramite il bando, un’apposita clausola contrattuale volta ad obbligare il oggetto nuovo aggiudicatario del servizio a rilevare le quote del socio uscente nella società mista.
La prima ipotesi porterebbe, sempre, di fatto, ad una soluzione di “in house providing” che comporterebbe, a sua volta, la totale scomparsa del partenariato pubblico-privato.
Soluzione che, lo si rammenta, il Consiglio di Stato ha ritenuto, anche in un’ottica comunitaria, di negazione del mercato, in quanto implica per un verso, l’espansione di un modello di per sé eccezionale, per l’altro volge verso una situazione di monopolio pubblico visto con sfavore, ormai, anche sul fronte europeo.
Nel secondo caso l’ente sarebbe costretto a costruire bandi di gara assolutamente sbilanciati in favore della Società mista già esistente e, conseguentemente, del partner privato uscente, prevedendo per i nuovi partecipanti costi assolutamente superiori a quelli che dovrebbe sostenere il socio attuale.
In conclusione, a prescindere dalle perplessità da ultimo evidenziate, il modello elaborato dalla Seconda Sezione del Consiglio di Stato con il Parere n. 456/2007 rappresenta una delle soluzioni più plausibili, con riferimento alle problematiche connesse alla costituzione di società miste e all’affidamento del servizio alle stesse, nel rispetto del principio di concorrenza, rispondente al bisogno di contemperare le esigenze di cooperazione tra settore pubblico e privato con quelle di tutela della concorrenza.
Tale assetto sembra essere molto vicino a quello che verrebbe auspicabilmente codificato con l’approvazione dell’iniziativa legislativa in corso (Atto Senato cit., n. 772, punto 7.4).
Lo stesso, ad oggi non può dirsi escluso dalla normativa vigente, che non va quindi disapplicata, ma adeguata, anche in via interpretativa, alla luce dei principi comunitari definiti dalla Corte di Lussemburgo.
8. Il recentissimo orientamento della giurisprudenza italiana
La giurisprudenza italiana che successivamente si è occupata della fattispecie si è sostanzialmente adeguata al modello di società mista costruito dal Consiglio di Stato.
Essa ha ribadito la necessità di far ricorso a procedure di evidenza pubblica ogniqualvolta debba scegliersi un socio privato per la costituzione di una società mista, “a prescindere dal tipo di attività che tale società deve espletare”32.
Così TAR Valle d’Aosta, 13 dicembre 2007, n. 163, che, nel riprendere e mettere in atto i principi espressi nel parere n. 456/2007, pronuncia la seguente massima: “E’ legittimo l’affidamento diretto del servizio di distribuzione del gas ad una società mista il cui socio privato sia stato selezionato con gara”.
Ma tale decisione va oltre. Ritiene, infatti, il tribunale amministrativo regionale di poter prescindere dall’elemento della temporaneità dell’affidamento, considerando legittima la proroga, a società il cui socio privato sia stato scelto con le modalità di cui al Parere n. 456/2007, di un affidamento in essere per un periodo contenuto e definito entro margini ragionevoli (5 anni). Alla scadenza del quale l’amministrazione indirà una nuova gara per la scelta del nuovo socio gestore.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 03/03/2008, n. 1, poi, nel pronunciarsi, specificatamente, sul modello di società mista elaborato dalla Sezione II del Consiglio di Stato, con il parere n. 456/2007, ha ritenuto che tale modello rappresenta “una delle possibili soluzioni delle problematiche connesse alla costituzione di tali società e all’affidamento del servizio alle stesse, anche se in mancanza di indicazioni precise da parte della normativa e della giurisprudenza comunitaria, non è allo stato elaborabile una soluzione univoca o un modello definitivo di società mista”.
L’assemblea, dunque, nella sostanza, ritiene che quella prospettata nel citato parere sia sicuramente una soluzione plausibile tra le tante possibili, auspicando, nel contempo, che sia il legislatore nazionale e comunitario ad intervenire in maniera specifica, prendendo definitivamente posizione sulla materia del partenariato pubblico privato e fugando ogni perplessità nutrita in merito.
Mentre, prosegue l’Adunanza Plenaria, “il modello di società costruito con il citato parere n. 456/2007 non è rinvenibile allorché il socio non venga scelto con procedura ad evidenza pubblica nella quale la gestione del servizio sia stata definita e precisata”.
Pertanto, la stessa assemblea, accoglie il modulo organizzativo indicato nel parere n. 456/2007 optando per l’ammissibilità dell’affidamento diretto del servizio pubblico in tutti quei casi in cui per la definitezza dell’oggetto e per la durata del servizio, la selezione del socio sia stata anche la scelta del socio gestore.
Infine, pare opportuno dar conto del recentissimo orientamento della Corte dei Conti, Sezione Regionale di Controllo per la Regione Sicilia, espresso con la pronuncia del 2 aprile 2008, n. 14, in ordine alle questioni legittimanti l’affidamento in house e sui presupposti per l’affidamento diretto ad una società mista: ““L’affidamento diretto ad una società mista può operare laddove vi sia stata, oltre ad una procedura ad evidenza pubblica per la scelta del socio privato, anche e, al tempo stesso, una procedura che definisca il servizio operativo da affidare direttamente al medesimo socio”.
“E’ evidente” prosegue la Corte dei Conti “la ratio di questa corrente di pensiero: se l’amministrazione, in sede di procedura di evidenza pubblica per la scelta del socio privato, fissa con chiarezza e trasparenza anche l’oggetto del servizio che la società mista dovrà realizzare, appare coerente con i principi di libera concorrenza evitare una successiva ed ulteriore gara per l’affidamento dl servizio, nel presupposto che tale valutazione è già stata effettuata in favore del socio privato”.
Tale orientamento basato sulla fungibilità tra contratto di appalto e contratto sociale, rappresenta, ad avviso della sezione controllo della Corte dei Conti Siciliana, “un ottimo compromesso tra le esigenze di partenariato pubblico e privato proprie della potestà organizzativa dell’amministrazione pubblica, rispetto alle esigenze della comunità europea di tutela dei principi di libera concorrenza volti a prevenire eventuali distorsioni del mercato”.
Pare, dunque, di poter affermare che la giurisprudenza statale tenda ad uniformarsi alla proposta interpretativa avanzata dal Consiglio di Stato, con il parere n. 456/2007 che, dunque, a ragion veduta può considerarsi il nuovo punto di riferimento dal quale l’interprete deve prendere le mosse nel prosieguo della vicenda di cui si è discusso.
9. Conclusioni
Il percorso interpretativo descritto nel presente studio, percorso, peraltro non ancora definitivamente approdato ad una soluzione finale evidenzia, ancora una volta la peculiarità del caso italiano.
Tale peculiarità, per una volta, non implica necessariamente un giudizio negativo, in quanto, al contrario, esprime la profondità e la capacità di alcune correnti interpretative, in grado di superare lo schermo del conformismo, recuperando sino in fondo i principi fondamentali degli ordinamenti nazionale e comunitario.
La materia richiede, tuttavia, un intervento chiarificatore in sede legislativa.
Ciò in ragione della ampia diffusione del modello gestionale della Società mista, ormai divenuto uno dei sistemi più utilizzati per la gestione dei servizi pubblici locali, oltre che per consentire agli operatori privati interessati di poter contare su uno statuto sicuro, su un regime chiaro che non li esponga alle alterne vicende della interpretazione giurisprudenziale.
Pertanto in conclusione non rimane che associarsi all’appello dei Giudici di Palazzo Spada i quali, da ultimo hanno auspicato che sia il legislatore nazionale e comunitario ad intervenire in maniera specifica, prendendo definitivamente posizione sulla materia del partenariato pubblico privato e fugando ogni perplessità nutrita in merito.
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1 Sul punto si rammentino i principi della “supremazia” e degli “effetti diretti” del diritto comunitario. In ragione del primo, ogni norma di diritto comunitario, ritenuta sovraordinata a quelle interne degli Stati membri, deve prevalere su qualsiasi norma di diritto interno, di ogni ordine e grado, anteriore o successiva, collidente con quest’ultima. Per effetto del secondo, le norme comunitarie, ove complete ed autosufficienti, sono caratterizzate dalla efficacia diretta, ossia dalla immediata penetrazione nel tessuto nazionale con l’attribuzione ai singoli di posizioni soggettive azionabili innanzi ai Giudici nazionali. Francesco CARINGELLA, Corso di Diritto Amministrativo, Milano, 2003, I, 6 ess.
2 Pare utile dare conto dello sviluppo di una interessante giurisprudenza in ordine al concetto di “prevalenza del capitale pubblico”: “La rilevanza del capitale pubblico per assicurare il vincolo di strumentalità della società… non può essere intesa nel senso che ciascun ente pubblico partecipante debba svolgere il ruolo di guida della società (interpretazione che renderebbe la norma priva di senso), bensì nel senso che la prevalenza pubblica, attraverso la quale si esplica il controllo sulla società, va riferita all’insieme degli enti e non a ciascuno di essi singolarmente considerato. Una diversa applicazione della norma , sotto il profilo logico, non sarebbe materialmente possibile, giacchè la partecipazione prevalente dell’uno esclude necessariamente la prevalenza dell’altro”. Ex plurimis Cons. Stato, Sez. V, 30 aprile 2002, n. 2300; Id. Sez. V, 30 aprile 2002, n. 2297; Id. Sez. V, 6 maggio 2002, n. 2418.
3 “L’interpretazione è apparsa conforme soprattutto alla ratio della normativa, comportando la costituzione di una società mista a capitale pubblico di maggioranza notevoli impegni finanziari ed organizzativi, che l’ente locale affronta in vista della gestione del servizio da parte della costituenda società. Il rischio di affrontare una gara per l’affidamento del servizio sarebbe quindi, contrario ai principi di ragionevolezza ed economicità dell’azione amministrativa e scoraggerebbe il ricorso a questa forma di gestione” C. VOLPE, Le società miste nei servizi pubblici locali: evoluzione o involuzione di un modello? In rivista Urbanistica e Appalti n. 6/2003, 6. T.A.R. Lombardia , Sez. Brescia, 4 aprile 2001, n. 222; D. IELO e V. LOPILATO, Società Miste locali e pubblici servizi: affidamento diretto, scelta del socio di minoranza e limiti all’attività extra moenia, in Giur. Amm., 2002, 1409.
4 Cons. Stato, Sez. V, 19 febbraio 1998, n. 192, in Giur. It. 1999, 1267; Id. Sez. V, 6 aprile 1998, n. 435; Id. Sez. V, 3 settembre 2001 n. 4586 in Cons. Stato, 2001, I, 1949; Id. Sez. V, 15 febbraio 2002, n. 917; Contra, ma in senso minoritario: Cons. Giust. Amm. Sic. 23 luglio 2001 n. 410.
5 Sul punto vedi Cons. Stato, ad gen. 16 maggio 1996. n.90, in Cons. Stato, 1996, I, 1640.
6 Nella materia vedi, in dottrina: G. CAIA, Le società con partecipazione maggioritaria di Comuni e Provincie per la gestione dei servizi pubblici locali (dopo la legge finanziaria del 2002), in www.giustizia-amministrativa.it; G. PITTALIS, Regolazione pro- concorrenziale dei servizi pubblici locali: un principio vincolante per Stato e Regioni, in www.giust.it, n. 12-2002; E. SCOTTI: Osservazioni a margine di società miste e servizi pubblici locali, in Foro It., 2002, III, 553.
7 J. FOURNIER, La teoria francese del servizio pubblico e il diritto comunitario, in Servizi a rete in Europa, a cura di E. Ferrari, Milano, 2000, 8.
8 Per una analisi della disciplina vedi C. TESSAROLO, Il nuovo ordinamento dei servizi pubblici locali, in Diritto dei servizi pubblici, 2004; A. BARBIERO, Note di analisi sull’evoluzione del sistema normativo di riferimento per i servizi locali.
9 Sul concetto di affidamento in house Vedi Sent. Corte Giust. 18 novembre 1999, C- 107/98, Tekal; Sent. Corte Giust. 8 maggio 2003, C- 349/97, Spagna/Commissione, Corte Giust., 27 febbraio 2003, C- 373/00, Truly.
10 F. Fracchia, Studio delle Società “pubbliche” e rilevanza delle prospettive giuspubblicistiche, in Foto It. 2005, nota a margine di Tar Lombardia, sez. I, ord. del 13 ottobre 2004, n. 175.
11 Libro Verde cit.
12 Consiglio di Stato Sezione VI 3 aprile 2007, n. 1514.
13 Corte di Giustizia Europea, Sentenza 18 novembre 2000, in causa C-107/98, Teckal.
14 Corte di Giustizia Europea, Sentenza 18 novembre 1000, in causa C-107/98, Teckal ; e Sentenza 14 novembre 2002, in causa C-310/01, Diddi e Comune di Udine.
15 Corte di Giustizia Europea, Sentenza 7 dicembre 2000, in causa C-94/99, Arge, e Sentenza 7 dicembre 2000, in causa C-324/98, Tele Austria.
16 Corte di Giustizia Europea, Sentenza 10 novembre 1998, in causa C-360/96, Arnhem.
17 Corte di Giustizia Europea, Sentenza 9 settembre 1999 in causa C-108/98, RI.SAN.
18 Sentenza Teckal del 18 novembre 1999 nel procedimento C-107/98.
19 Sentenza Stadt Halle, Corte di Giustizia Europea, Sez. I, 11.01.2005 in Procedimento C-26/03.
20 Vedi, in questo senso,Corte di Giustizia Europea, sentenza Stadt Halle e RPL Lochau, cit., punto 48.
21 Corte di Giustizia Europea , Sentenza Parking Brixen, Sez. I, 13.10.2005 in Procedimento C- 458/03.
22 Corte di Giustizia Europea, Sentenza Carbotermo del 11 maggio 2006 in Procedimento C-340/04.
23 Cfr, in particolare, la già citata sentenza 13 ottobre 2005, causa C-458/03 – Parking Brixen GmbH.
24 Cfr. decisione della V Sezione del Consiglio di Stato del 8 gennaio 2007 che ha affermato che se il Consiglio di Amministrazione ha poteri ordinari non si può ritenere sussistere un “controllo analogo”.
25 Sul punto: TAR Puglia, 8 novembre 2006, n. 5197; Cons. Stato, V Sez., 30 agosto 2006, n. 5072.
26 Cfr. Sentenza Carbotermo del 11 maggio 2006 in Procedimento C-340/04.
27 Da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 3 febbraio 2005, n. 272.
28 V. Libro Verde della Commissione Europea del 30 aprile 2004 e la Risoluzione del Parlamento Europeo del 26 ottobre 2006.
29 Cfr. in particolare la sentenza 11 gennaio 2005, causa C-26/03 – Stadt Halle e RPL Lochau e la sentenza 13 ottobre 2005, causa C-458/03 – Parking Brixen GmbH.
30 Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, decisione 27 ottobre 2006, n. 589, nella quale si optava per la disapplicazione dell’art. 113, comma 5, lett. b).
31 Libro Verde, punto 58; Cfr pure i successivi punti 61, 62 e 63 che appaiono in linea con le affermazioni sin svolte dal Consiglio di Stato.
32 Consiglio di Stato, sez. V, 04/03/2008, n. 889.